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Open Innovation e Big Pharma: un binomio possibile

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Open Innovation è un modello teorizzato e descritto per la prima volta da Henry Chesbrough dell’Università di Berkeley, per il quale, in un mondo in cui la conoscenza è largamente diffusa e distribuita, le aziende non possono limitarsi ad utilizzare per la ricerca le proprie risorse interne, ma dovrebbero aprire canali di collaborazione con altre entità attraverso l’utilizzo strategico della proprietà intellettuale (licensing in e licensing out), con lo scopo di sviluppare nuovi modelli di business: un accesso più trasversale alla ricerca, quindi, con la possibilità di sfruttare economicamente anche quei risultati che non trovano diretta applicazione nel core business dell’azienda. Questo approccio è largamente utilizzato nel settore hi-tech, ma non può che sembrare estraneo al mondo farmaceutico, in cui la protezione estrema della proprietà intellettuale è sempre stata considerata un paradigma fondamentale.

Seguendo la logica di closed innovation, una volta esaurito il serbatoio di acquisizione in start-up biotech, compagnie leader di mercato si sono trovate a fronteggiare una pipeline (la gamma di prodotti che l’azienda si propone di introdurre sul mercato nel breve/medio termine e che rappresenta un asset fondamentale  nell’industria farmaceutica) insufficiente a controbilanciare il fenomeno del patent cliff,  ovvero l’improvviso calo di ricavi dovuto alla scadenza dei brevetti di prodotti che catturavano alte percentuali di mercato e alla conseguente entrata nel mercato di farmaci generici concorrenti.

La soluzione, secondo questa intervista a Mene Pangalos, vice-presidente esecutivo per la ricerca di base e lo sviluppo di prodotti di AstraZeneca, risiede in una rivisitazione dei principi che guidano la ricerca seguendo strategie improntate alla Open Innovation: non più una rincorsa fine a sè stessa ad una massa impressionante di farmaci “candidati” senza riguardo al loro potenziale di lungo termine, ma una attenta valutazione e selezione di target clinici da colpire, possibile solo attraverso una più profonda comprensione dei meccanismi fondamentali della malattia. E’ proprio in questo ultimo ambito  della ricerca di base che la collaborazione aperta tra ricerca accademica, organizzazioni umanitarie ed industrie farmaceutiche rivali produce i suoi risultati: la grande quantità di dati (conoscenza) derivanti dalla decodifica del genoma umano ha portato ad una situazione in cui, nonostante le specifiche di progettazione dei singoli farmaci rimangano sotto stretto segreto, la creazione di un ecosistema di ricerca condivisa è il modello che più si adatta alla ricerca preliminare sulla causa della malattia e produce i migliori risultati per tutti gli attori in gioco.

La vicinanza fisica tra le entità coinvolte è uno dei fattori ritenuti fondamentali nell’ottica della creazione di conoscenza condivisa: la motivazione del raggruppamento di tutte le attività di ricerca del gruppo Astra in unico centro a Cambridge, a stretto contatto con un importante centro di ricerca universitaria, risiede nella convinzione che incoraggiare gli scienziati a frequentare quelle che erano considerate le inaccessibili fortezze della ricerca farmaceutica privata possa incentivare le relazioni informali e lo scambio di conoscenze necessarie alla produzione di innovazione.

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